Riavvolgiamo il nastro per parlare di “network effect” (o effetto rete). I social network nascono per aggregare una propria community. Per anni, all’alba della diffusione di Facebook, privati cittadini ed aziende hanno fatto una scorpacciata di seguaci. Li hanno intrattenuti. Li hanno coccolati. Li hanno accolti in casa come farebbe il migliore degli ospiti. Più avanti nel tempo, poi, hanno scoperto che quella premura che usavano nei confronti dei follower, avrebbe avuto un prezzo. Si, proprio così. Perché se prima i contenuti venivano resi disponibili ai propri follower, dopo le opportune modifiche all’algoritmo i contenuti a pagamento avrebbero avuto precedenza. Che botta.
In effetti tutte le aziende del digitale dispongono di community gigantesche, che monetizzano dandone (limitato) accesso al miglior offerente.
Lo fa Google, che conosce i dati dei suoi clienti (Gmail) e le ricerche che eseguono (sul motore di ricerca).
Lo fa Facebook, insieme alle sue propaggini Instagram e WhatsAPP.
Lo fa Amazon, con il sito e con la giovane DSP (Demand Side Platform).
Linkedin, Bing, TikTok e tutti gli altri.
“Ok”, ti dirai, “ma perché devo preoccuparmi se ci sono aziende – nel mondo – che pensano a guadagnare secondo modalità di questo tipo? saranno affari loro.”
Come darti torto. Ed infatti ciò che quelle aziende fanno, non ti riguarda direttamente. Piuttosto ti riguarda tutto ciò che fanno i tuoi competitor e come si muove l’intero mercato.
Eh già, perché è molto facile prendere “in affitto” una community, piuttosto che crearla da zero. Ma questo si traduce in una crescita progressiva dei costi per poterlo fare.
E se il tuo mercato non è ancora stato toccato, prima o dopo succederà. Accadrà che qualche operatore inizi ad allocare un budget per la pubblicità. Ne entreranno a quel punto altri, te compreso, ed il meccanismo innescherà un’asta al rialzo dei costi. Per acquisire un cliente dovrai mettere mano al portafoglio, farlo costantemente e alzando la posta ad ogni puntata. Ad ogni giro di tavolo sarà come stringere un tantino il cappio che ti avvolge il collo. Finché ti mancherà aria ed ossigeno per sopravvivere.
Ed è proprio qui che si innesca il cosiddetto “problema della partenza a freddo”: the cold start problem.
Quando si parla di effetto rete (o network effect, in inglese), si fa sempre riferimento al telefono. L’esempio è perfetto perché per la prima volta, con il telefono, è stata introdotta una tecnologia per la comunicazione verbale “uno a uno”. Ai suoi albori non tutti credevano che si sarebbe potuta divulgare. Il perché? la garanzia che si potesse generare l’effetto rete.
A cosa serve il telefono se lo possiede solo un utente? e se in una città di 1.000 abitanti lo possiedono in 5? esatto, serve pochissimo. Il telefono fonda il suo successo sull’adozione da parte di tanti. Se i nodi della rete (ovvero i possessori di un telefono), sono pochi, allora la rete non ha valore e la tecnologia ha un futuro tutt’altro che roseo. Quando il telefono è nato, qualcuno nutriva dubbi sul fatto che si riuscisse a stabilire il collegamento tra tutti i potenziali nodi della rete. E che il costo per piantare tralicci e stendere cavi fosse insostenibile. Quel qualcuno si sbagliava e le infrastrutture hanno permesso di aggiungere innumerevoli nodi di una rete che a quel punto si sarebbe divulgata su scala globale.
Intanto è bene precisare che l’effetto rete ha a che vedere con l’adozione di una tecnologia (come nel caso del telefono) ma – più in generale – con il successo di un qualunque prodotto (la rete, in questo caso, si compone dei clienti). Stimare il valore di una rete, nell’esempio del telefono, è intuitivo: una rete vale tanto quanti sono i nodi che possiede. Ma è sempre vero? e per tutti i prodotti? purtroppo no, sarebbe facile. Per un prodotto di lusso, ad esempio, vale l’esatto opposto se la rete è troppo grande, se i clienti sono troppi, il prodotto perde valore. Ecco perché nel caso di prodotti a distribuzione selettiva, come Rolex, sei costretto ad aspettare mesi per veder arrivare il tuo esemplare.
Più in generale, poi, il fatto che la rete dei tuoi clienti sia ampia non contempla necessariamente che abbia valore. Ad esempio, se i tuoi clienti non acquistano in modo ricorsivo, se non sono davvero “in relazione” con te, se la tua capacità di guidarli o consigliarli è inefficace, quella rete perde valore.
È quello che succede a molti degli autoproclamati influencer che – in realtà – non hanno nessuna capacità di influenzare i gusti, le abitudini di consumo, le opinioni dei propri “follower”.
Come vedi, quindi, il valore di una rete si stima caso per caso ed in virtù di ciò che la rete dovrebbe abilitare.
La sfortuna di chi, come me, ogni giorno lavora per poter portare un beneficio alla propria organizzazione è che le cose non sono mai semplici. E quando sono semplici sono a portata di tutti con la conseguenza che non aggiungono (molto) valore.
Se ora quindi ti sono chiari i benefici che una rete può portare (ed il valore che ne consegue) ti domanderai: “dove risiede la difficoltà?”
Una rete è difficile da far partire. Ecco dove sta la difficoltà.
Puoi immaginare una rete come una ruota di pietra dalle dimensioni eccezionali. Per metterla in moto dovrai spingere forte. Faticherai moltissimo per farle compiere il primo movimento. Poi, piano piano e con grande dispendio di energie, riuscirai a farle fare mezzo giro. Poi il primo giro spingendo ancora tantissimo. La ruota a quel punto inizierà a beneficiare del suo stesso peso, che un poco la sospinge. Il secondo girò ti costerà un po’ meno fatica. La ruota inizierà a prendere velocità fintantoché la sua inerzia la manterrà in movimento con pochissimo sforzo richiesto da te. E a quel punto il gioco è fatto: la tua rete si sostiene autonomamente e cresce in modo fisiologico e senza alcuno sforzo da parte tua.
Innescare il primo movimento della ruota significa affrontare “il problema della partenza a freddo”, per come lo definisce Andrew Chen.
Per riuscire nell’intento ci si concentra sulla creazione di un primissimo sottoinsieme della rete, che viene detto “rete atomica”, attivarlo e – solo dopo – pensare ad espanderlo.
Alcuni casi sono da manuale, e li elenco di seguito.
Uber, per esempio, ha iniziato con il noleggio di limousine. Il noleggio di auto gestite da “privati” non era ancora regolamentato ed è stato un primo competitor di Uber a trovare la soluzione osservando l’operato di un’associazione LGBT, nata con l’obiettivo di garantire un trasporto pro bono per gli associati. La rete atomica si è poi espansa ai driver generalisti.
SLACK è partita dalla sua stessa organizzazione. Lo strumento di messaggistica è stato congegnato per comunicare con il team di sviluppo (che costituiva la rete atomica”) di un videogioco. Dal fallimento del videogioco si è trattenuta la parte migliore: il sistema di messaggistica.
Linkedin ha avviato la sua rete escludendo i professionisti top (del calibro di Bill Gates, che sarebbero stati “assaliti” dai partecipanti della rete e li avrebbero visti uscire immediatamente) ed i professionisti meno d’appeal. Con un ingresso dietro invito, quindi, Linkedin si è concentrata su una audience di professionisti di livello ma non di fama internazionale i quali hanno costituito la sua rete atomica.
Per Facebook la sua rete atomica è stata costruita a partire dagli studenti del college presso cui Zuckerberg e gli altri cofondatori studiavano. I membri ammessi a Facebook dovevano possedere un indirizzo mail di Harvard. Poi la rete si è espansa ad altri college. Solo dopo al di fuori delle università.
Il problema della costruzione di una rete, di una community, di un gruppo di follower è di difficile soluzione. Senza dubbio, però, val la pena provare ad affrontarlo a beneficio della propria organizzazione. Possibilmente imparando dagli errori commessi da chi ci ha preceduto 🙂
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